Nel panorama teatrale e cinematografico contemporaneo, la voce del regista milanese si erge in modo originale, per la forza e la portata del suo messaggio artistico, del tutto sganciato dalle tematiche e dalle mode culturali attuali. Ne abbiamo parlato con lui in questa intervista nella quale precisa la sua visione del mondo, in nome di una bellezza mai fine a se stessa, ma sempre ancorata all’idea di un’etica salvifica

Il regista e drammaturgo milanese Marco Filiberti.

Maestro Filiberti, la sua visione e la sua sensibilità creative le danno modo di spaziare in diversi campi artistici. Una visione e una sensibilità, però, che non sono al servizio unicamente della sfera estetica ma, soprattutto, di quella etica. Osservando la sua attività pluridisciplinare, non si può fare a meno di identificarla e di raffrontarla con quella di un uomo di cultura, anch’egli impegnato in diversi ambiti dell’arte, la cui statura etica non fu sovente inferiore a quella estetica, ossia Jean Cocteau. Ma, con una sostanziale differenza: se Le rappel à l’ordre di Cocteau rappresentava un invito al mondo dell’arte in nome dell’arte, il suo “richiamo” intende coinvolgere l’espressione artistica in nome di una vita non più mercificata e squallidamente omologata. Sbaglio?

Ciò che penso possa suggerire un accostamento della mia figura a quella di Cocteau è l’insistente richiamo, presente in entrambi, ad approcciare e valutare ogni declinazione del nostro lavoro (e talvolta penso non solo di quello) come manifestazione e testimonianza di un linguaggio puramente analogico, una testimonianza sempre e soprattutto di poesia. Penso poi che l’eterogenia delle declinazioni dell’arte di Cocteau sia più frammentata - genialmente frammentata - rispetto a quella ravvisabile nella mia opera che, fondamentalmente, è un’opera unica, nata da una stessa matrice e con un impulso unitario, coerente, principalmente di tipo escatologico, anche se poi ovviamente assume vesti formali alquanto diversificate tra di loro. Le rappel à l’ordre di Cocteau mirava a un ricompattamento delle forme troppo esposte alle mode, alla reattività del suo tempo d’avanguardie. Il mio non è un richiamo a nessun tipo di “classicismo”, giacché essere “classici” per me non significa ottemperare certe normative della creazione artistica ma appartenere a una dimensione metatemporale, intrinsecamente mitica. Quindi, è impossibile suggerirla: è un’appartenenza che esiste da prima, da sempre, oppure no. Nel mio caso non si è mai trattato di una “scelta” ma di una “accettazione”, di una presa di coscienza di ciò che ero e di come meglio potevo provare a canalizzarlo in un contesto storico e antropologico a me così sfavorevole. Cocteau è stato una straordinaria manifestazione del “moderno”, anche se talvolta lo fronteggiava, senza però possedere alcuna percezione profetico-apocalittica propria invece di altri spiriti più connessi alla grazia della vaticinazione. In ogni caso, io non credo che oggi siano possibili “richiami all’ordine” di qualunque genere. Tutto è andato troppo oltre. Invece, credo fermamente a testimonianze sapienziali coerentemente vissute al di fuori dell’agone dialettico, soprattutto quello mediatico e para-mediatico, oggi completamente assorbito nelle logiche mostruose del Sistema che, almeno verbalmente, vorrebbe censurare.

La "poliedricità" creativa di Jean Cocteau nella celebre foto scattata da Philippe Halsman.

Mi colpisce il fatto di come lei attinga, a livello di propulsione e messaggio artistici, da una trimurti composta da personalità così eterogenee tra loro, quali Richard Wagner, Lev Tolstoj e Marcel Proust, alle quali rimanda sempre con le sue opere, quasi come se volesse trovare in esse un punto di equilibrio tra la sfera etica e quella estetica. Non solo, fa riflettere come lei evochi con la sua opera, direttamente o indirettamente, una visione di rovine, emblema del Kali-Yuga nel quale viviamo, che rimanda a posizioni che appartengono alla cultura tradizionalista del Novecento, René Guénon e Julius Evola su tutti.

Certamente i tre autori citati rappresentano tre spiriti-guida, tre declinazioni - benché molto distanti su un piano della restituzione compiuta - di un intrinseco classicismo, cioè di opere che rispondono alle istanze del Moderno - percepito come condizione di de-sacralizzazione del mondo - proponendo un antisistema, perfettamente compiuto in sé, nella forma dell’Opera-Mondo. Guerra e Pace, il Ring, la Recherche sono tre impressionanti frangiflutti contro l’avanzare cieco e disumano di quelle magnifiche sorti e progressive che hanno allontanato sempre più l’uomo e tutta la creazione da una possibile riconciliazione nella consapevolezza. Sono opere dove spiritualità e arte si fanno cosa sola, benché la percezione della voce dello Spirito sia nei tre Autori molto differente, e così la forma che la ospita. Ma questo non cambia l’essenza della questione: ognuno è anche figlio di un proprio tempo piccolo, di un luogo, di una genetica, di una cultura e di una antropologia. Ma i grandi autori “classici”, talvolta quasi inconsapevolmente, sono molto di più figli della loro intuizione, della loro non-appartenenza, della percezione di un non-tempo, dell’eterno, della frequenza sapienziale, cioè di quel Vero riguardante le categorie ultime, dimensione spesso estranea e perfino antagonistica a quella intellettuale e iper-culturalizzata. Non è certo un caso che Socrate, Gesù e il Budda non abbiano lasciato una sola parola scritta! Se poi la rovina è centrale nella mia opera, allora lo è prima di tutto quale figura trionfale di ogni sconfitta, di ogni disfatta mondana in quanto “pietra scartata dai costruttori che si fa testata d’angolo”. Allora i miei riferimenti - semmai ce ne siano realmente di riferimenti: infatti preferirei parlare di “confratelli” volti a traguardare il tempo diacronico, incontrati in quello sincronico - sono da cercare in altri ambiti etici ed estetici, dal sublime naturale della scuola di Jena alle ruins byroniane, dalle profezie nietzschiane agli Angeli Scarlatti di Benjamin piuttosto che al pensiero di un Guénon e di un Evola, troppo avviluppati a sincretismi esoterici che mi puzzano sempre un po’ di zolfo.

La "trimurti" artistica ideale di Filiberti, rappresentata da Richard Wagner, Lev Tolstoj e Marcel Proust.

Un altro tema caro, estrapolato dalla galassia estetica della sua opera, Maestro Filiberti, è quello relativo alla bellezza. Senza scomodare il principe Miškin di dostoevskijana memoria e al suo proclama con il quale affermava che la bellezza salverà il mondo, appare evidente che nella sua produzione teatrale e cinematografica il concetto proiettante del bello è sempre “qualcosa-in-funzione-di”. Trovo che questo “qualcosa-in-funzione-di” rappresenti un andare oltre alla funzione di bellezza incarnata, in ambito teatrale, da un Carmelo Bene, e in quello musicale, da Sylvano Bussotti. Un qualcosa che appartiene, e qui mi sorprende che il suo nome non compaia con quelli che formano la trimurti di cui sopra, a Friedrich Nietzsche e alla sua Die Geburt der Tragödie, nella quale il concetto di “tragico” unisce la missione salvifica dell’arte unitamente all’oltrepassare, grazie ad esso, l’assurdità della vita.

La mia idea di bellezza, inserita per forza di cose nell’ultima fase della décadence contemporanea, è necessariamente correlata all’idea di ruins di cui sopra. E aggiungerei che, se non fossimo nella décadence, non occorrerebbe congetturare teoricamente sulla natura del bello ma ci limiteremmo a percepire l’armonia o la disarmonia - in rapporto a un perfetto disegno cosmico - di una manifestazione fenomenologica. Senza volerlo, forse le ho risposto sulla più che significativa presenza nelle mie costellazioni più prossime del pensiero di Nietzsche. L’esclusione “nominale” di questo pensatore sta solo nel fatto che le mie correlazioni più intense io le sviluppo sempre con i poeti, non con i pensatori. Tornando più specificatamente alla questione del bello, credo che senza la sconfitta, senza la nobiltà ferita di un galata suicida, oggi non si possa dare bellezza. Dunque, come vede, si tratta di una conformazione di bellezza esattamente agli antipodi di quella perseguita nella società dei consumi, anche nell’arte. E allora, con ancora più convinzione, torno a una natura del bello - ben più che a una funzione - di matrice platonico-plotiniana, un bello erotico-spirituale quale primo portale necessario per il balzo cosmico, quello della resa totale, quello che diviene accesso al piano Sapienziale, al cristico, al télos escatologico che anima tutta la mia vita. Come vede, le posizioni polemico-dialettiche di un Carmelo Bene o di un Sylvano Bussotti sono molto distanti, per quanto - collocate nel loro tempo storico - siano anch’esse costituite di una radicalità molto vicina al mio sentire e al mio manifestarmi.

Carmelo Bene e Sylvano Bussotti (© Lisetta Carmi), nelle cui posizioni polemico-dialettiche Marco Filiberti non si riconosce.

E, così, giungiamo al suo Parsifal, opera cinematografica (ma definirla tale è semplicemente riduttivo) unica nel suo genere, in cui il processo della bellezza salvifica, ossia etica, reso testualmente da “il bello et il bene insieme” proferito dal puro folle, viene mostrato stratificamente nel tempo e nello spazio, secondo la celebre affermazione di Gurnemanz, un film in cui Querelle de Brest di Fassbinder dà la mano all’Andrej Rublëv di Tarkovskij, una piscina nella quale il liquame si mescola con l’acqua benedetta, facendoci capire in fondo che il liquame può anche essere benedetto e che l’acqua santa, a volte, può odorare di merda.

Concordo su tutto, certamente anche sul fatto che il liquame accolga, e spesso, elementi salvifici, ma molto meno sul fatto che l’acqua benedetta - quando tale lo sia davvero - possa odorare di merda. Il punto è proprio quel quando lo sia davvero, benedetta. La fenomenologia è un inganno, i nostri sentimenti sono ingannevoli, il nostro linguaggio è ingannevole… L’inganno è la nostra condizione, un labirinto entro il quale solo la Sapienza (che ovviamente non è intelletto né cultura né sapere, ma assenza di identificazioni) può aprire il varco alla pianura delle verità. Ogni volta che rivivo - non rivedo - il mio Parsifal, attraverso questo spalancamento: dall’oscurità di ogni tipo di inganno identificativo alla luce rivelatoria della Sapienza, l’unica vera libertà.

Due fotogrammi dal film Parsifal di Marco Filiberti.

Filiberti e la musica. Al di là della presenza ineludibile nella sua visione artistica e professionale, qual è il suo rapporto quotidiano con il mondo sonoro? Ciò che inserisce nelle sue opere teatrali e cinematografiche corrisponde all’ascolto privato?

Alla prima parte della domanda rispondo che tanto ho necessità di musica quanto ho necessità di silenzio. Al silenzio arrivo solo quando sono molto centrato, ma quando ne ho accesso, allora posso dire che il silenzio è musica divina. È per questo forse che rigetto completamente ogni musica di sottofondo. Ho gravi problemi anche su questo con il mondo contemporaneo: entrare in un bar, in un negozio, in un ristorante e trovare sempre questa musica apposta necessariamente in modo casuale e cacofonico rispetto al cluster di fondo, mi paralizza, avvertendola sempre come un altro segno forte della disfunzionalità dei nostri tempi. E poi, fosse almeno bella musica! Al contrario, quando entro in un esercizio commerciale e sento silenzio corro ad abbracciare il responsabile: mi creda, quasi sempre si tratta di persone illuminate. Venendo alla seconda domanda, posso dire che nei momenti più intensi della fase realizzativa di un progetto teatrale o cinematografico, la totalità della mia partecipazione è tale che non posso fare a meno di ricongiungermi anche nella vita “privata” agli elementi musicali che sto trattando. Quando invece sono in altre fasi del mio lavoro, gli ascolti allora diventano ricchi e diversificati e possono dipendere da molti fattori: da una certa luce, da un profumo, un ricordo, una stagione, un luogo o una persona possono portarmi all’ascolto di Monteverdi o di Debussy, di Mozart o di Wagner, di Rossini o di Verdi, di Stravinskij o di Max Richter. Oppure anche di una bella immersione nel pop-rock-soul-dance degli anni ’70, l’ultima stagione realmente creativa.

La locandina della mostra organizzata a Montalcino per presentare l'attività artistica di Marco Filiberti.

La mostra allestita fino al 23 marzo 2024 al Teatro degli Astrusi a Montalcino, la quale porta emblematicamente il titolo Marco Filiberti: Alle sorgenti della bellezza e che presenta un nutrito corredo di fotografie di scena, manifesti, documenti audiovisivi, elementi scenografici, studi preparatori e costumi del suo fare, può essere considerata un’“opera nell’opera”, ossia capace di oltrepassare la semplice funzione di “esposizione”? Glielo chiedo poiché immagino questa realizzazione alla stessa stregua dei Cahiers d’Écriture proustiani da lei utilizzati quale inizio del progetto teatrale inerente la Recherche che la terrà impegnata anche nei prossimi anni.

Questa mostra-retrospettiva è stata un bellissimo regalo che mi hanno fatto, in primis Enrico Falaschi. Non ne sapevo niente, ma quando me lo ha proposto sono stato entusiasta dell’idea. Certamente ho dato alcuni suggerimenti per strutturare la manifestazione, ma questa volta io ero “solo” il festeggiato. Quello però che ho potuto constatare durante le giornate che abbiamo dedicato a incontri, proiezioni e dibattiti, è stato che il pubblico ha vissuto questa occasione proprio come “un’opera nell’opera”, confermando che il mio lavoro è percepito come strettamente connesso alla mia persona, a quello che porto in ogni manifestazione del mio essere.

Andrea Bedetti