Disco del mese di Febbraio 2024 

Caposaldo della letteratura cameristica del Novecento, di cui rappresenta una pagina ineludibile, sia per comprendere la drammatica mutazione stilistica del suo autore, sia per rendersi conto del periodo storico in cui maturò, la Sonata per violino e pianoforte in fa minore op. 80 di Sergej Prokof’ev rappresenta un banco di prova a dir poco indispensabile per un duo d’interpreti, quella fatidica cartina al tornasole che serve per capire non solo le proprie capacità tecniche, ma soprattutto se si possiede quella sensibilità di lettura, senza la quale questo capolavoro non può essere esaltato e reso come invece merita.

Quindi, ogni volta che mi capita tra le mani una nuova registrazione discografica di questa Sonata, non posso fare a meno di ascoltarla, come ho appunto fatto anche con un recentissimo disco pubblicato dalla Da Vinci Classics, che vede due interpreti francesi, la violinista d’origine russa Tatiana Mesniankine e il pianista Daniel Gardiole, i quali hanno voluto accoppiare l’op. 80 del compositore russo con un’altra Sonata, che porta l’evocativo titolo di Behind the Light, del musicista contemporaneo newyorkese e di formazione francese Anthony Girard. Il che ha portato a un confronto musicale (e spirituale) tra le tenebre, rappresentate inesorabilmente dalla pagina di Prokof’ev, e dalla ricerca di luce, evocata da quella di Girard (non per nulla il titolo del CD è D’ombres et de lumières).

La cover del CD Da Vinci Classics con la Sonata op. 80 di Sergej Prokof'ev e la Sonata "Behind the light" di Anthony Girard.

Sono poche, pochissime le pagine in cui la creazione musicale ha saputo incarnarsi nel concetto bivalente di trauma esistenziale/epocale con la medesima intensità presente nella sonata prokof’eviana; quindi, sarà bene ricordarne il perché. Cominciamo dal lato umano, ossia da quel processo di “tarpatura delle ali” che Prokof’ev subì all’indomani della sua sciagurata decisione di tornare in patria, dopo averla lasciata a causa della rivoluzione leniniana. Definire sciagurata la sua decisione non è certo esagerato e mette in luce il côté decisamente ingenuo mostrato dal compositore, quando, lasciando la capitale musicale dell’epoca, soprattutto per ciò che riguardava gli aspetti maggiormente all’avanguardia, ossia Parigi, per tornare a Mosca, allettato dalle offerte economiche da parte dell’establishment staliniano, credette di continuare a fare ciò che aveva fatto e incarnato fino a quel momento: il sovvertitore del linguaggio musicale sempre in ossequio di un’ortodossia armonica, quindi senza andare a rompere gli indugi come invece avevano già fatto i rappresentanti della Seconda scuola viennese. Il ritorno in patria fece ben presto comprendere a Prokof’ev (ingenuo sì, stupido no) che le libertà stilistiche, tali da infarcire di umorismo, di satira, di elementi grotteschi la sua creatività musicale, attuate fino a quel momento, dovevano essere risolutamente messe da parte, onde evitare di ritrovarsi sotto il letto gli sgherri della NKVD di Lavrenti Berija (Šostakovič, nello stesso periodo, era in procinto di provare le stesse “emozioni”, grazie a come sarebbe stata accolta dal regime la sua opera lirica Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk… ). Alla conseguente tarpatura, a disprezzo di ciò che aveva permesso di dare vita a pagine a dir poco rivoluzionarie (si prendano come esempi la Prima sinfonia e il Primo concerto pianistico), si unì ben presto anche il drastico e terribile mutamento culturale scaturito dall’assassinio di Sergej Kirov, responsabile del partito comunista per i compositori, e dalla conseguente successione nel suo ruolo di quell’autentico macellaio e leccaculo di Andrej Ždanov, che permise così ai musicisti russi (e non solo loro) di apprezzare pienamente lo “stimolante ed esaltante” clima di terrore instaurato da Stalin.

A quel punto, in Prokof’ev, che aveva visto nel frattempo sparire dall’oggi al domani diversi amici musicisti e impresari, la consapevolezza prese finalmente il posto dell’ingenuità: la frittata era stata fatta, ma se si trattava di cucinare una frittata, che almeno avesse un sapore destinato ad andare oltre il proprio presente. Ebbene, la Sonata op. 80 rappresenta indiscutibilmente una pietra miliare di tale cambiamento. E se fino a quel momento gli ingredienti per preparare le frittate musicali erano stati una straordinaria brillantezza, un uso a dir poco ardito in chiave armonica, una spalmatura in chiave beffarda della componente melodica, a partire dalla metà degli anni Trenta, la scrittura di Prokof’ev subisce una drastica (e necessaria) mutazione che porta a un risultato in cui le frittate sonore offerte al regime e al pubblico di allora dovevano essere un capolavoro di camouflage ideologico senza perdere per questo un’oncia di espressività e di originalità artistiche. Così, Prokof’ev smette i panni del funambolico Till Eulenspiegel degli anni Venti e indossa quelli di un “viaggiatore della notte”, ossia di un Céline che fa un’inversione a u, attraversando con la sua musica quelle tenebre che, malgré soi, aveva inconsapevolmente sfidato e accettato.

Sergej Prokof'ev con Dmitrij Šostakovič: i due compositori furono spesso accusati di essere dei formalisti e deviazionisti dai rappresentanti della nomenklatura sovietica.

E se la facciata di questo viaggio coincide con la Quinta sinfonia, con la quale (apparentemente) Šostakovič si mette prono per fare la dovuta “autocritica”, il cortile, in cui si annusano gli afrori della stagnazione ideologica e del degrado umano e artistico, vengono resi proprio dalla Sonata op. 80 di Prokof’ev, grazie alla quale le lacrime e i singhiozzi prendono il posto dello champagne parigino e dei frizzi e lazzi mondani del bel tempo che fu. Così, l’arte affiorante nel nome dell’“avete visto come sono bravo?” viene sostituita da quella che era frutto dello stridor di denti e di notti trascorse con l’orecchio appoggiato alla porta di casa, anche su consiglio dello stesso Šostakovič, il quale si era ormai abituato da tempo a dormire vestito e con la valigia pronta sotto il letto.

Per questo, la Sonata in questione può ambire a emblema epocale, sia per il nuovo capitolo compositivo che s’impossessa di Prokof’ev, sia per il fatto di raccontare esemplarmente un periodo storico che va esattamente dal 1938 al 1946, questo il lasso di tempo necessario per completarla, che coincide con gli anni più nefasti del regime staliniano, al quale aggiungiamo anche il cadeau del secondo conflitto mondiale, tragedia che si aggiunge a tragedia. Certo, che qualcosa fosse mutato nell’approccio compositivo di Prokof’ev, prima del suo ritorno in patria, si era già potuto constatare in due opere come la Suite Scita (1914-15) e l’opera lirica Il giocatore (composta nel medesimo biennio e rivista nel 1927), ma nulla in confronto rispetto a ciò che avvenne dopo il rientro in Unione Sovietica, senza contare che il clima teso, quasi irreale, che il compositore di Soncivka dovette affrontare e vivere fino al termine del secondo conflitto mondiale si rivelò solo un antipasto di fronte a ciò che avvenne a partire dal gennaio del 1948, ossia quando fu direttamente chiamato in causa dal famigerato “rapporto Ždanov”, enunciato nel corso di una sessione del Comitato Centrale del Partito Comunista, nel quale si accusarono alcuni compositori, tra cui lo stesso Prokof’ev e Šostakovič, di tendenza formalista e deviazionista.

Anche se alcuni contributi critici considerano l’op. 80 opera “disimpegnata” e “rasserenante”, opinione che non condivido minimamente, questa Sonata rientra in quel calderone cameristico che lo stesso Prokof’ev definì Sonate di guerra (le altre, come si sa, furono la Sesta, la Settima e l’Ottava Sonata pianistiche, oltre alla Sonata per flauto e pianoforte op. 94), imprimendo loro una conseguente drammaticità che non può essere disattesa (tanto per rimarcare la desolante atmosfera che si respira nell’op. 80 è bene ricordare come David Ojstrakh, dedicatario e primo interprete di questa pagina, decise di utilizzare, con il pianista e compositore Samuil Feinberg, i primi due tempi per accompagnare la salma di Prokof’ev il giorno dei suoi funerali).

Prokof'ev, con la moglie Lina Codina e i figli Sviatoslav e Oleg, in una foto del 1936, ossia due anni prima dell'inizio della composizione della Sonata op. 80.

In questa sonata l’austerità, il compianto, il dolore raggrumato vedono in Prokof’ev l’utilizzo di una forma classica, fondamentalmente mai ripudiata,  desunta, come si è ripetuto a iosa, dall’ascolto di una sonata per violino e basso continuo di Händel, che affiora soprattutto attraverso la linea pianistica nel primo tempo, un Andante assai, tale da poterlo definire una commovente passacaglia; il senso di dilaniante spaccatura, di insanabile frattura viene espresso da Prokof’ev nel secondo tempo, Allegro brusco, che è suddiviso in due nette e distinte parti, con la prima che sconcerta per la violenza con la quale viene esposta (la partitura porta l’indicazione “marcatissimo e pesante”), per poi lasciare spazio all’enunciazione da parte del violino di un tema maggiormente cantabile (“grave eroico”), come a dire che la disperazione che si prova non deve annullare un concetto di possibile speranza. La trasmigrazione dei sentimenti provati continua con il terzo tempo, un altro Andante, che rassomigliante a una Pastorale, fa affiorare una sorta di amore innocente, racchiuso in una pellicola di purezza e che si dipana attraverso la struttura di un Lied tripartito. Infine, l’ultimo tempo, Allegrissimo, anch’esso emotivamente e strutturalmente alterato, vede dapprima un tema apertamente trionfale, che viene ripetuto per ben otto volte, a cui segue un secondo tema intriso di lirismo e tenerezza. C’è poi un’elaborazione che desume la sua struttura da segmenti estrapolati dai primi due tempi, rimodellati in modo imprevedibile e per certi versi sconcertante, anche per via degli interventi del pianoforte (la partitura indica che i suoi incisi devono essere resi in “fortissimo e feroce”), con una chiusura, che rappresenta una specie di cerchio senza soluzione di continuità, in cui Prokof’ev presenta una precisa citazione che appartiene al secondo tema del primo tempo.

Devo ammettere, e faccio subito ammenda cospargendomi la testa di cenere, di non aver mai ascoltato le composizioni di Anthony Girard, sulla cui attività musicale in Francia aleggia già un sentore di leggenda. Probabilmente, se il duo di interpreti ha voluto accludere la Sonata Behind the Light non è solo per porla come contraltare rispetto all’oscurità che ammanta quella di Prokof’ev, ma anche per far conoscere l’opera di questo autore al di fuori dei confini nazionali. Stando lontano da tentazioni sperimentali e da linguaggi musicali a dir poco arditi, il percorso artistico di questo compositore newyorkese si articola attraverso una ricerca che pone estrema attenzione al risultato melodico dell’insieme. Da ciò che ho potuto ascoltare, senza disporre della partitura, la Sonata in questione deve rappresentarne un tipico esempio. A ciò, come ricordano nelle note di accompagnamento al CD Jean-Pierre Benoit e Alice Pennacchioni, Girard è stato influenzato dalla musica medievale, da quella tradizionale indiana e dalle tendenze minimaliste, senza dimenticare la sua attenzione al misticismo occidentale e orientale. Da ciò ne consegue un obiettivo artistico con forti tinte spirituali (chi conosce la produzione di un John Tavener e di un Arvo Pärt, può comprendere tali finalità), che si riflettono per l’appunto anche in Behind the Light che, a detta dell’autore, è un invito all’esplorazione interiore. Tutta l’opera si presenta racchiusa in un solo tempo, nel quale sono riconoscibili tre distinti segmenti autonomi che rafforzano l’idea, il concetto di un viaggio verso un’illuminazione. Viaggio nel quale i due strumenti si presentano con un distinto compito; se il violino assume un ruolo per così dire “narrativo”, alternando lirismo e canto, il pianoforte lavora per permettere allo strumento ad arco di operare nel modo migliore, dipanando atmosfere feconde e favorevoli.

Al di là del ruolo evocativo dato dalla composizione di Anthony Girard, è indubbio che il punto di forza di questa registrazione è fornito dalla Sonata di Prokof’ev. Premetto che quella fatta dai due interpreti francesi è a mio avviso una delle migliori letture che abbia mai ascoltato in disco e, come si è soliti dire in occasione di importanti manifestazioni sportive, il suo ascolto “vale da sola il prezzo del biglietto”. Tatiana Mesniankine e Daniel Gardiole sono riusciti in tale intento penetrando in modo esemplare nelle viscere della materia musicale, incastonando, da par loro, i quattro tempi della Sonata tramite altrettante focalizzazioni e stili indelebili. L’Andante assai iniziale, a livello di atmosfera, è una sorta di Waste Land di Eliot riprodotta in modalità liquida; il violino, contrassegnato da un suono flebile, quasi asmatico nella sua perfezione timbrica, enuncia vagonate di desolazione e di amarezza, con il pianoforte che si adegua in un processo di immedesimazione stilistica al punto tale da proiettare l’immagine di due entità sonore che si tengono per mano, espirando un suono diafano, che sa di “malato”, di contaminato. Questo sentimento patologico, teso alla disgregazione, lascia posto dapprima, nell’Allegro brusco, a un contrappasso fatto di rasoiate impetuose, che lasciano senza fiato, sempre con una padronanza assoluta della materia musicale dominata sia dal violino, sia dal pianoforte, per poi assistere allo spettacolo dello strumento ad arco che si lascia andare, affrontando il secondo tema, a un timbro spietatamente sardonico, che viene distillato come un getto di vomito con il contagocce. L’immagine del contagocce deve far comprendere come il violino prima e il pianoforte poi sappiano portare il costrutto a mostrarsi attraverso una dilaniante sospensione spaziale a temporale, la quale, infine, lascia campo a una sorta di marcia organizzata dagli inferi, in cui la perizia tecnica dei due artisti lascia sbigottiti. A proposito di capacità tecniche, si deve ascoltare come Tatiana Mesniankine riesce a padroneggiare imperiosamente il registro acuto, così solleticato sadicamente nel corso dell’Andante, con il quale riesce anche qui a creare una specie di proiezione visiva di questo tempo, fornendo soprattutto all’inizio la materializzazione di un andamento stralunato e incantato allo stesso tempo. Infine, nell’Allegrissimo finale, è il magnifico sviluppo del dialogo eroico, eppure ironico, che cesella un’esemplare coesione d’insieme tra i due strumenti, senza contare che nel corso di tutta la Sonata Daniel Gardiole riesce ad estrarre dalla cassa armonica del pianoforte un catalogo lussureggiante di sfumature che non fanno altro che fornire alla violinista cibo di riverberi timbrici con il quale lei riesce ad alimentare la pastoia del suo strumento.

I protagonisti della presente registrazione, il pianista Daniel Gardiole e la violinista Tatiana Mesniankine (© Céline Nieszawer).

Da ciò che ho potuto ascoltare nella Sonata di Girard, il tasso di difficoltà tecnica non diminuisce, anzi. Quello che il compositore newyorkese presenta nella sua opera è un incessante processo di interazione virtuosistica piegata alla necessità progressiva di un impianto irradiante, mirante alla conquista della luce interiore che si manifesta alla fine del brano, e che dev’essere stilisticamente centellinato, mentre contemporaneamente devono essere sviluppate e dipanate le cellule armoniche che arricchiscono ulteriormente il suo linguaggio. Una pagina perigliosa, ardita, da cavalcare sul filo del rasoio, ma che i due interpreti portano a termine come se avessero bevuto un bicchiere d’acqua, tale è la semplicità a dir poco disarmante alla quale giunge la loro espressività.

Disco del mese di febbraio per MusicVoice.

Molto buona anche la presa del suono ottenuta da Elio Di Tanna e Bruno Ralle, poiché con il loro lavoro hanno saputo esaltare il sontuoso timbro del violino Guersan del 1757 e del pianoforte Steinway B-211 del 1972 utilizzati dai due interpreti. La dinamica è una sferzata di energia incanalata in un binario di treni ad alta velocità, il tutto con una notevole trasparenza e naturalezza. Il parametro del palcoscenico sonoro ricostruisce i due interpreti al centro dei diffusori, con il violino leggermente e correttamente avanzato rispetto al pianoforte. L’equilibrio tonale mantiene sempre a fuoco il registro dei due strumenti, esente da sbavature o inopportuni accavallamenti. E il dettaglio mostra una piacevolissima matericità che invita l’ascoltatore a toccare con mano il violino e il pianoforte, ospitati entrambi nell’ambiente in cui si irradiano.

Andrea Bedetti

Sergei Prokofiev-Anthony Girard – D’ombres et de lumières (Sonata for Violin and Piano No. 1 Op. 80 in F minor & Sonate pour violon et piano “Behind the Light”

Tatiana Mesniankine (violino) - Daniel Gardiole (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00820

Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4,5/5

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